I musulmani e le accuse di blasfemia contro l’Islam, ovvero il bue che dice “cornuto” all’asino

I “nostri fratelli musulmani”, quegli stessi che hanno issato i vessilli di guerra contro Charile Hebdo e le sue vignette blasfeme, quegli stessi che hanno applaudito a piene mani la morte del regista Van Gogh e della sua pellicola “Submission”, quegli stessi che in queste ore stanno invadendo le strade del Pakistan per protestare contro l’assoluzione di Asia Bibi dall’accusa di blasfemia per aver offeso Maometto o anche più semplicemente tutti quei musulmani che non tollerano si possa pronunciare il nome del Profeta invano e criticare l’islam in quanto “religione di pace, amore e tolleranza”, forse, e diciamo forse, hanno dimenticato che in soli diciassette anni, dal 613 d.C., l’anno in cominciò a predicare, al 630 d.C., l’anno della sua conquista della Mecca, il profeta Maometto distrusse le statue di dèi e dee e unificò gli arabi con l’imposizione intorno a al-wahid, “l’Uno”.

La scrittrice musulmana Fatema Mernissi, citando il tafsir di Tabari, riporta alcuni particolari che ci dimostrano che Maometto, a La Mecca, nella fase iniziale della sua predicazione, in realtà non venne veramente perseguitato ma avrebbe potuto professare liberamente la sua autoproclamata missione se solo avesse evitato di essere offensivo e minaccioso nei confronti de suoi concittadini e delle loro credenze religiose:

Fu un’impresa sbalorditiva, se non un miracolo, perché all’inizio nessuno era convinto che la pace richiedesse questa grande purificazione della Ka’ba. In realtà, nessuno vedeva il legame fra il pluralismo e la violenza.
Al consiglio dei Quraysh sembrava molto più semplice che il Profeta portasse il proprio Dio alla Ka’ba e lasciasse che gli altri facessero quello che volevano.

Durante uno storico incontro nella casa di Abu Talib, lo zio e il protettore del Profeta (l’unico uomo in grado di consigliarlo), la delegazione dei Quraysh gli propose [a Maometto] di «smettere di insultare i nostri dèi» e «noi lo lasceremo con il suo Dio». Sentita la dichiarazione della delegazione, Abu Talib, che era lui stesso uno dei saggi della città, si volse al Profeta e gli disse con grande semplicità: «Figlio di mio fratello, questa delegazione è la più rappresentativa della tribù a cui appartieni. Ti stanno solo domandando giustizia, chiedendoti di smettere di insultare i loro dèi, e loro in cambio ti lasceranno venerare i tuoi in pace».
I membri della delegazione attesero con ansia che il Profeta parlasse, volevano trovare un compromesso e riportare la pace in città. La risposta del Profeta fu che voleva che pronunciassero una frase, una sola, e poi li avrebbe lasciati in pace, perché questa frase avrebbe permesso loro di sottomettere tutti gli arabi e di dominare gli a’jam (non arabi). Sollevati, i membri della delegazione risposero con impazienza: «Ma qual è dunque questa frase? Dobbiamo dirne dieci, se vuoi». Erano ansiosi di essere concilianti. Il Profeta rispose loro che l’unica cosa da fare era pronunciare la shahada, il primo atto con il quale si diventa musulmani: «Dite: «La ilah illa allah “(non c’è altro dio all’infuori di Dio». Loro naturalmente rifiutarono, e dissero: «Chiedici qualunque cosa, ma non questo».
Allora il Profeta pronunciò le parole che noi usiamo ancora oggi, quando vogliamo dire che non intendiamo scendere a un compromessi: «Anche se riusciste a catturare il solo e metterlo nel palmo della mia mano, non cambierò mai idea. Pronunciate questa frase, o niente». La fatale conseguenza fu che la città si spaccò letteralmente in due.

Il termine coranico generalmente accettato per esprimere questa divergenza di opinioni nella città è shiqaq, uno scisma che divide in due sia la comunità che il cielo e nell’islam il numero due è maledetto. Questa parola, shiqaq, si trova all’inizio della sura 38, che descrive i negoziati preliminari dei membri del consiglio dei Quraysh con il Profeta.

[Fatema Mernissi, Islam e democrazia. La paura della modernità, Giunti editore, pag. 123]

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