L’era delle conquiste islamiche (VII-XI secolo) – Testimonianze storiche

Egitto, Palestina, Tripolitania (640-646)

 

La presa di al-Fayyum

Il generale Teodosio, apprendendo dell’arrivo degli ismailiti [i musulmani], si spostava da un luogo all’altro al fine di osservare le mosse del nemico. Gli ismailiti attaccarono, uccisero il comandante, massacrarono tutte le sue truppe e si impadronirono subito della città . Chiunque si recasse presso di loro, veniva massacrato; non risparmiarono né vecchi, né donne, né bambini¹.

 

Dopo la fuga dell’esercito greco nei pressi di Nikiu²

Allora i musulmani arrivarono a Nikiu. Non vi era un solo soldato che opponesse loro resistenza. Si impadronirono della città e massacrarono tutti coloro che incontravano, sia per strada che nelle chiese – uomini, donne e bambini -, senza risparmiare nessuno. Poi si spostarono in altri luoghi, lì saccheggiarono e uccisero tutti gli abitanti che vi trovavano. Nella città di Sā sorpresero Esqutaos e i suoi uomini, che appartenevano alla tribù del generale Teodoro, nascosti nelle vigne, e li massacrarono. Ma ora tacciamo, perché è impossibile riferire gli orrori commessi dai musulmani quando occuparono l’isola di Nikiu nel diciottesimo giorno del mese di guenbōt (una domenica), nel quindicesimo anno del ciclo lunare, come pure le terribili scene che si verificarono a Cesarea di Palestina […]³.

‘Amr [ibn al-‘As] assoggettò l’Egitto. Poi inviò gli abitanti di quel paese ad attaccare gli abitanti della Pentapoli [Tripolitania], e, dopo che ebbero riportato la vittoria, non permise loro di rimanere lì. Prelevò da quel paese un bottino considerevole e un gran numero di prigionieri. Abulyanos […], il governatore della Pentapoli, le sue truppe
e i notabili della provincia si ritirarono nella città di Teucheira, che era solidamente fortificata, e vi si rinchiusero. I musulmani se ne tornarono al loro paese con il bottino e i prigionieri.
Il patriarca Ciro provava un profondo dolore a causa delle sventure che si erano abbattute sull’Egitto, poiché ‘Amr, che era di origine barbara, trattava gli egiziani senza pietà e non rispettava gli accordi che erano stati stipulati con lui […].
La posizione di ‘Amr diventava di giorno in giorno più solida. Egli riscuoteva l’imposta che era stata concordata, ma si guardò bene dal toccare i beni delle chiese, preservandoli da ogni saccheggio e proteggendoli per tutta la durata del suo governo. Dopo aver preso possesso di Alessandria, fece prosciugare il canale della città, seguendo l’esempio di Teodoro il malfattore. Egli aumentò l’imposta portandola a 22 batr d’oro, di modo che gli abitanti, piegati sotto il peso del tributo e impossibilitati a pagarlo, si nascosero […].
Ma è impossibile descrivere la straziante situazione degli abitanti di questa città, i quali, non trovando nessuno che li aiutasse, arrivarono a offrire i propri figli in cambio delle enormi somme che dovevano pagare ogni mese, poiché Dio li aveva abbandonati e aveva consegnato i cristiani nelle mani dei loro nemici.

Giovanni di Nikiu

 

Iraq

Omar ibn al-Khattab (634-644), desiderando spartire al-Sawad tra i musulmani, ordinò che [gli abitanti] fossero contati. In seguito alla spartizione, ogni musulmano ricevette tre contadini. Omar chiese consiglio ai Compagni del Profeta, e ‘Alī disse: «Lasciali [liberi], poiché possono diventare una fonte di guadagno e un aiuto per i musulmani».

al-Baladhuri

 

Armenia

armenia islam

Lapidi armene nei pressi del lago di Van

L’armata devastatrice uscì dall’ Assiria [Alta Mesopotamia] e, passando per la valle di Dzor, penetrò nella contrada di Daron, di cui si impadronì, così come dei distretti di Peznounik’ e di Agh’iovid; poi, dirigendosi verso la valle di Pergri attraverso Ortorou e Gokovid, essa dilagò nella provincia dell’Ararat […].
Non vi fu nessuno tra gli armeni che poté dare l’allarme al villaggio di Tevin [Dvin], fatta eccezione per tre capi, che accorsero proprio in quel momento per radunare le truppe disperse: Teodosio Vahevonni, Katchian Ar’avegh’ian e Shapuh Amatuni.
Essi si precipitarono a Tevim. Giunti al ponte sul Medzamor, lo distrussero alle loro spalle e andarono ad annunciare agli abitanti la triste notizia dell’avvicinarsi dei nemici; poi fecero entrare nella fortezza tutti coloro che si trovavano nel paese, ed erano giunti lì per la vendemmia. Teodoro, dal canto suo, si era diretto nella città di Nakhidjevan.
Giunti al ponte sul Medzamor, gli infedeli dapprima rimasero bloccati; ma poi, siccome avevano per guida Vartig, principe di Mogkh, soprannominato Agnig, attraversarono il ponte e invasero tutta la regione. Dopo aver preso una considerevole quantità di bottino e di prigionieri, andarono ad accamparsi ai margini della foresta di Khosrovaguerd.
Il giovedì diedero l’assalto alla città di Tevm, che cadde in loro potere; infatti l’avevano avvolta in una grande nube di fumo, e, un po’ grazie a questo espediente, un po’ a colpi di frecce, ebbero la meglio sugli uomini che difendevano i bastioni. Poi, issate le scale, si arrampicarono sulle mura e di lì, lanciandosi nella piazzaforte, aprirono le porte. Tutto l’esercito [arabo] si precipitò all’interno e passò gli abitanti a fil di spada. Una volta sazio di bottino, rientrò negli accampamenti, che erano situati fuori città.
Dopo alcuni giorni di riposo, gli ismailiti [= arabi] ripresero la via per la quale erano venuti, trascinandosi dietro una moltitudine di prigionieri: in tutto 35.000.
Tuttavia il principe d’Armenia Teodoro, signore di Rechtounik, che con un piccolo drappello di uomini aveva preparato un’imboscata nel distretto di Gokovid, piombò su di loro; ma fu sconfitto e costretto alla ritirata. Gli infedeli, dopo essersi messi al suo inseguimento, uccisero molti dei suoi uomini, dopodiché rientrarono in Assiria.

Sebeo

 

Cipro, le isole greche e l’Anatolia (649-654)

Mua’wiya e il suo seguito si diressero a Costanza, capitale di tutto il paese. La trovarono completamente piena di abitanti. Stabilirono il loro dominio su questa città con un grande massacro […]. Radunarono tutto l’oro dell’isola, molte ricchezze, schiavi, e si spartirono il bottino. Gli egiziani ne presero una parte, gli arabi un’ altra, e se ne andarono. Ma dal momento che il Signore aveva fissato il suo sguardo sull’isola e aveva deciso di farla devastare, subito dopo scatenò Abu al-‘ Awar e il suo esercito, che giunsero a Cipro per la seconda volta, poiché avevano appreso che gli abitanti si erano nuovamente riuniti lì. Quando arrivarono, la popolazione fu presa dallo spavento. Al loro ingresso, i tayyaye fecero uscire la gente dalle caverne e saccheggiarono l’intera isola. Essi cinsero d’assedio la città di Pathos e, dopo un aspro combattimento, la sottomisero. Quando gli abitanti chiesero di trattare, Abu al-’Awar li informò che avrebbe preso l’oro, l’argento e i loro beni, ma che non avrebbe fatto loro alcun male. Allora essi aprirono le porte della città: i tayyaye radunarono tutte le ricchezze e ritornarono in Siria.
In seguito, Mu’awiya assediò la città di Aruad [Arwad], che sorge su un’isola, ma senza riuscire a impadronirsene. Mandò a dire al vescovo Tommaso che gli abitanti dovevano abbandonare la città e andarsene in pace, ma essi non accettarono, e Mua’wiya ritornò a Damasco. Quando arrivò la primavera, Mu’awiya tornò ad assediare Aruad. Allora tutta la popolazione la abbandonò, e Mu’awiya la distrusse in modo che non fosse più abitata.
Abu al-’Awar venne per mare con il suo esercito e arrivò nell’isola di Cos, di cui si impadronì grazie al tradimento del vescovo del luogo. Egli devastò e depredò tutte le sue ricchezze, massacrò parte della popolazione e trascinò via i superstiti come prigionieri, poi distrusse la sua cittadella. Quindi passò a Creta e la saccheggiò. Poi lui e i suoi uomini si diressero a Rodi, che devastarono nell’anno 965 [654] secondo il calendario greco […].
In quel periodo giunse al termine la tregua di sette anni che i romani [bizantini] avevano stipulato con i tayyaye. Questi presero a saccheggiare tutte le regioni dell’Asia [Minore], della Bitinia e della Panfilia. In Mesopotamia scoppiò una grave pestilenza. I tayyaye saccheggiarono
e devastarono di nuovo tutti i territori fino al Ponto e alla Galazia.

Michele il Siro.

 

Cilicia e Cesarea di Cappadocia

Essi [i tayyaye] passarono in Cilicia saccheggiando e facendo prigionieri, e piombarono a Euchaita [città dell’Armenia sul fiume Halys] senza che la popolazione se ne accorgesse. In un attimo presero il controllo delle porte, e, quando Mu’waiya arrivò, ordinò di passare a fil di spada gli abitanti; dispose sentinelle in più punti affinché nessuno potesse fuggire.
Dopo aver radunato tutte le ricchezze della città, essi si misero a torturare i capi perché mostrassero loro le cose [= i tesori] nascoste. I tayyaye ridussero in schiavitù tutti gli abitanti, uomini e donne, ragazzi e ragazze, e diedero vita a una grande orgia in quella sventurata città, commettendo iniquamente ogni sorta di impurità all’interno delle chiese. Poi se ne tornarono allegramente alloro paese […].
Mu’awiya, generale dei tayyaye, divise le sue truppe in due gruppi. Alla testa di uno di essi mise il perfido siriaco Habib, che inviò in Armenia nel mese di tesrin . Quando le sue truppe vi giunsero, trovarono il paese pieno di neve. Ma usarono l’astuzia e portarono con sé dei buoi, che fecero marciare davanti a sé per aprirsi la strada. Così penetrarono nella regione senza essere intralciati dalla neve. Gli armeni, che non avevano previsto questa mossa, furono colpiti quando meno se l’aspettavano. I tayyaye diedero inizio alle devastazioni e ai saccheggi. Fecero prigionieri gli abitanti, incendiarono i villaggi e ritornarono alloro paese felici e contenti.
Intanto l’altro esercito, quello rimasto con Mu’awiya, penetrò nella regione di Cesarea di Cappadocia. Passando per Callisura, essi trovarono i villaggi pieni di uomini e di animali, e se ne impadronirono. Dopo aver radunato il bottino raccolto in tutto il paese, Mu’awiya attaccò la città [Cesarea], assediandola per dieci giorni. Poi devastò radicalmente l’intera provincia, lasciò la città in preda all’abbandono e tornò indietro. Di lì a pochi giorni lui e i suoi uomini tornarono per la seconda volta ad attaccare Cesarea, e combatterono contro di essa per molti giorni. Gli abitanti, vedendo che una grande collera si era abbattuta su di loro e che non avevano un liberatore, acconsentirono a trattare per avere salva la vita, e i notabili uscirono e concordarono il pagamento di un tributo. Quando i figli di Agar [gli arabi] penetrarono in città e videro la bellezza degli edifici, delle chiese, dei monasteri, e la grande opulenza che vi regnava, si pentirono di aver fatto loro delle promesse. Ma, non potendo ritornare sulla parola data, presero tutto quello che volevano e si spostarono nella regione di Amorium. Alla vista di quel paese affascinante, simile a un autentico paradiso, decisero di non compiervi alcuna devastazione, ma si diressero verso la città. Dopo averla circondata, riconoscendo che era imprendibile, proposero agli abitanti di negoziare e di aprire loro la città. Ma, poiché essi non acconsentivano, Mu’awiya inviò le sue truppe a devastare la regione: esse si impossessarono dell’oro, dell’argento, delle ricchezze, e se ne tornarono nel loro paese.

Michele il Siro

 

Armenia (705 circa)

Lo sterminio dei nobili armeni

Al tempo della dominazione degli arabi , dopo la morte del primo Muhammad, nell’ anno 85 della loro era e sotto il califfato di ‘Abd al-Malik, figlio di Marwan, essi, ispirati da Satana che infondeva loro uno spirito di collera, appiccarono un incendio contro di noi. Di comune accordo, infatti, ordirono un atroce piano pervaso da una malizia velenosa e letale, che andò a sommarsi ai mali che già ci avevano colpito così dolorosamente: sterminarono e massacrarono interamente le nostre truppe e i loro generali, i nostri capi, i nostri principi, i nobili e tutti coloro che appartenevano alla stirpe dei satrapi.
Essi si affrettarono a inviare in diversi luoghi messaggeri latori di notizie false, incaricati di persuadere tutti i leader armeni, mediante parole insidiose e promesse menzognere, a radunarsi in uno stesso punto. Essi distribuirono loro, da parte del califfo, ricchi doni e tahegan a profusione, e condonarono loro le imposte di quell’anno. Poi, con l’astuzia li privarono delle armi, fingendo di essere loro a volersi proteggere dalle loro spade: «Voi- dissero – non siete stabili come noi nei vostri giuramenti». Quindi, dopo averli radunati tutti, li misero sotto buona guardia in due diversi luoghi, gli uni a Nakhidjevan e gli altri nel villaggio di Hram³⁰. Il capo di questi scellerati [messaggeri] era un certo Qasim³¹ amico di Muhammad³², il quale era stato nominato governatore dell’ Armenia per ordine di ‘Abd al-Malik.
Avendo così radunato i satrapi armeni, [gli arabi] dissero: «Che nessuno osi allontanarsi da questa grande riunione». Poi, dopo essersi segretamente impossessati delle loro armi, si misero in agguato e, precipitandosi alle porte, le bloccarono con materiali vari. Intanto gli armeni intonavano il cantico dei Santi Bambini nella fornace e quello degli angeli che celebrano con i pastori il Re degli spiriti celesti. Gli arabi, avendo praticato un’apertura nel tetto, appiccarono il fuoco in quel punto, e vi ammassarono materiale combustibile in quantità ancora maggiori di quelle utilizzate nella fornace di Babilonia. Spinti dalla paura del loro tirannico sovrano e da una legione di demoni penetrati nei loro corpi, [gli arabi] erano in preda all’ira e correvano tutt’intorno all’edificio facendo lampeggiare le spade. Gli armeni intanto sentivano ardere le viscere di amore paterno, e, mentre una pioggia di fuoco, cadendo dal solaio, aderiva alle vesti dei loro figli, gliele strappavano a brandelli. Di fronte all’atroce spettacolo della morte delle creature a cui avevano dato la vita, essi non si preoccupavano in alcun modo del loro pericolo personale: così morirono tutti avvolti dalle fiamme […].
I carnefici ormai non avevano più nulla da temere dalle loro vittime, loro che tante volte, malgrado la superiorità numerica, erano stati battuti da un pugno di coraggiosi e nobili condottieri armeni. E non è tutto: i nostri guerrieri più illustri ebbero la testa mozzata, e i loro corpi furono inchiodati alle croci. Fu questo l’ultimo atto di quell’atroce tragedia.
In seguito gli infedeli – quegli scellerati – si riversarono da tutte le parti e rovistarono da cima a fondo le case di coloro che avevano immolato. Portarono via tutti i tesori presenti nel paese; si impadronirono anche delle case dei cavalieri e delle loro famiglie, dopodiché condussero con sé i prigionieri a Nakhidjevan.
Quanto a quelli che erano rimasti sconvolti dalla notizia di tali atrocità e che piangevano sulle sorti della nostra patria, essi li trascinavano in giro per mostrare loro i malcapitati che erano stati inchiodati alle croci; in tal modo intendevano non solo incutere il terrore nell’animo del nostro popolo, ma ostentare la loro «prodezza» agli occhi dell’universo. Questo mistero d’iniquità si compì nel sedicesimo anno del regno di ‘Abd al-Malik, che devastò l’Armenia e la ricolmò di sventure fino al giorno in cui morì. Per ben quattro volte, sempre su suo ordine, si ripeterono questi massacri. Dopo la sua morte, nel primo anno del califfato di al-Walid […], durante le festività pasquali, gli arabi trasportarono una moltitudine di prigionieri nella capitale Tevim. Li tennero in carcere per tutta quella torrida estate, e a mio avviso tra essi furono più i morti che i sopravvissuti. Quando venne l’autunno, li fecero uscire di prigione e, impresso loro un marchio sul collo, li costrinsero a partire per la Siria, dopo aver contato e registrato ciascuno di loro. A Damasco i nobili vennero trattenuti a corte, i loro figli avviati all’apprendimento di un mestiere e tutti gli altri spartiti fra vari padroni. Quanto a coloro che morirono lungo il cammino, non so se fu data loro sepoltura o se rimasero a giacere nello stesso punto in cui erano caduti¹⁰.

 

Spagna e Francia (793-860)

Nel 177 [anno del calendario islamico] Hisham, principe di Spagna, inviò nel territorio nemico un folto esercito guidato da ‘Abd al-Malik ibn ‘Abd al-Wahid ibn Mughit, che si spinse fino a Narbona e a Djeranda. Questo generale dapprima attaccò Djeranda, dove si trovava una guarnigione scelta di franchi; uccise i più valorosi di essi, distrusse le mura e i dintorni della città e fu lì lì per impadronirsene. Poi marciò su Narbona, dove ripeté gli stessi exploit; quindi, proseguendo l’avanzata, invase il suolo della Cerdagna. Per molti mesi il suo esercito attraversò in lungo e in largo la regione, facendo violenza alle donne, uccidendo i guerrieri, distruggendo le fortezze, bruciando e saccheggiando ogni cosa, mentre il nemico fuggiva disordinatamente dinanzi a esso. Infine, rientrò in Spagna sano e salvo, portando con sé Dio solo sa quale enorme bottino. Questa spedizione è una delle più celebri tra quelle condotte dai musulmani in Spagna […].
Nel 210 ‘Abd al-Rahman ibn al-Hakam inviò nel territorio franco un forte squadrone di cavalleria comandato da ‘Ubayd Allah, noto con il nome di Ibn al-Balansi, Quest’ufficiale organizzò razzie in tutte le direzioni, si abbandonò ai massacri e ai saccheggi e fece molti prigionieri. Nel mese di rebi ebbe luogo uno scontro con le truppe degli infedeli, conclusosi con la disfatta di questi ultimi, che subirono numerose perdite; i nostri invece riportarono una significativa vittoria […].
Nel 223 ‘Abd al-Rahman II ibn al-Hakam, sovrano di Spagna, inviò un esercito contro Álava: questo si accampò nei pressi di Hisn al-Gharat, che cinse d’assedio, e si impossessò di tutto il bottino che vi trovò, poi uccise gli abitanti e si ritirò, portando via come prigionieri le donne e i bambini […].
Nel 231 un esercito musulmano penetrò in Galizia, nel territorio degli infedeli, compiendo ovunque saccheggi e massacri. Esso avanzò fino alla città di Leon, di cui intraprese l’assedio con le catapulte. Gli abitanti, spaventati, fuggirono abbandonando la città e tutto ciò che conteneva, di modo che i musulmani poterono saccheggiarla a loro piacimento, per poi distruggere quel che restava. Ma essi si ritirarono senza essere riusciti ad abbattere le mura: esse infatti avevano un’ampiezza di 17 cubiti, per cui non poterono far altro che aprirvi numerose brecce […].
Nel 246 Muhammad ibn ‘Abd al-Rahman avanzò con ingenti truppe e un consistente apparato militare contro la regione di Pamplona; egli conquistò, devastò e annientò questo territorio, saccheggiandolo e seminandovi la morte¹¹.

Ibn al-Athir

 

Anatolia

La presa di Amorium (838)

[…] Quando gli abitanti si accorsero che Bodìn faceva entrare i tayyaye, si rifugiarono chi in chiesa, gridando: «Kyrie eleison», chi in casa, altri ancora nelle cisterne o nelle buche; le donne coprivano i loro figli come chiocce, poiché temevano di esserne separate dalla spada o dalla schiavitù. I feroci tayyaye diedero inizio al massacro, e accumularono interi mucchi di cadaveri; poi, quando le loro lame furono sazie di sangue, arrivò l’ordine di sospendere la strage e di fare prigionieri gli abitanti per condurli fuori da Amorium.
Allora saccheggiarono la città. Quando il re entrò a vederla, ammirò le sapienti strutture dei templi e dei palazzi. Ma, poiché gli era giunta una notizia che gli aveva arrecato inquietudine, le fece appiccare il fuoco e la incendiò. Vi erano talmente tanti conventi e monasteri femminili al suo interno che oltre mille vergini furono fatte prigioniere, senza contare quelle che erano state massacrate. Esse vennero cedute agli schiavi turchi e mori e abbandonate ai loro oltraggi: sia gloria agli imperscrutabili giudizi! I tayyaye bruciarono vivi tutti coloro che si erano nascosti nelle case o che erano saliti sulle tribune rialzate delle chiese.
Quando l’intero bottino recuperato in città fu riunito in un solo luogo, il re, vedendo che la popolazione era assai numerosa, diede l’ordine di uccidere 4000 uomini. Diede inoltre l’ordine di portare via le stoffe preziose e gli oggetti d’oro, d’argento e di bronzo, nonché le altre ricchezze provenienti dal saccheggio. Poi i tayyaye si misero a prelevare anche le persone, e, quando i figli vennero separati e strappati dalle braccia dei genitori, si levò un clamore straziante da parte delle donne, dagli uomini e dai bambini, i quali emettevano forti urla e grida. Quando i loro lamenti giunsero alle orecchie del re, ed egli ne apprese la causa, fu irritato perché avevano cominciato a deportare la popolazione senza il suo consenso. In preda alla collera montò a cavallo, e colpì e uccise di sua mano tre uomini che aveva incontrato con degli I schiavi al seguito. Subito dopo fece radunare nuovamente gli abitanti
nel punto in cui si trovavano, e, per suo ordine, parte di essi fu assegnata agli ufficiali delle truppe, parte agli schiavi turchi del re, parte infine venduta ai mercanti. Le famiglie però venivano vendute tutte insieme, e i genitori non venivano separati dai figli […].
A quell’ epoca Teofilo, imperatore dei romani [bizantini], inviò doni ad Abu Ishaq [al-Mu’tasim], re dei tayyaye, e chiese di procedere a uno scambio tra i prigionieri romani e quelli tayyaye. Abu Ishaq accettò i doni e gliene inviò di ancora più grandi, replicando: «Noi arabi non possiamo accettare uno scambio alla pari tra musulmani e romani, perché Dio considera i primi superiori ai secondi, Tuttavia, se tu mi restituirai i tayyaye senza chiedere nulla in cambio, noi sapremo restituirvi il doppio e superarvi in ogni cosa». Gli inviati di Teofilo ritornarono con cinquanta cammelli carichi di doni principeschi da parte del califfo, e tra i due re fu ristabilita la pace¹².

Michele il Siro

 

Sicilia e Italia (835-851 e 884)

Un’altra incursione diretta contro l’Etna e i forti circostanti ebbe per effetto l’incendio delle messi, il massacro di molti uomini e il saccheggio. Nd 221 Abu al-Aghlab organizzò un nuovo assalto nella stessa direzione; il il bottino che esso fruttò fu tra i più considerevoli, sebbene gli schiavi fossero venduti a prezzi bassi. Quanto a coloro che presero parte alla spedizione, essi ritornarono in patria sani e salvi. Lo stesso anno fu inviata una flotta contro le isole ; anch’essa, dopo aver raccolto un ricco bottino e aver conquistato diverse città e fortezze, ritornò a casa sana e salva […].
Nel 234 i ragusani conclusero la pace con i musulmani, in cambio della consegna della città e di tutto quello che conteneva. I vincitori la distrussero dopo averne prelevato tutto ciò che era trasportabile.
Nel 235 un esercito musulmano marciò contro Castrogiovanni [Enna] e ne tornò sano e salvo, dopo essersi abbandonato ai saccheggi, ai massacri e agli incendi in tutta la città.
Nel redjeb del 236 morì l’emiro musulmano della Sicilia, Muhammad bin ‘Abd Allah ibn al-Aghlab, che era rimasto al potere per diciannove anni. Egli risiedeva a Palermo, da cui non usciva mai, limitandosi a inviare di lì truppe e colonne che utilizzava come strumenti di conquista e di saccheggio […].
Anche nel 271 [884?] un forte esercito musulmano fu inviato contro Rametta; esso compì enormi devastazioni e rientrò con un abbondante bottino e un gran numero di prigionieri.
Poiché in quel periodo era morto l’emiro della Sicilia al-Husayn ibn Ahmad, gli subentrò Sawada b. Muhammad ibn Khafaja al-Tamimi.
Quando costui arrivò nell’Isola, guidò un forte esercito contro Catania e annientò tutto ciò che si trovava nei . Poi andò a portar guerra agli abitanti di Taormina, e devastò i raccolti del paese. Stava continuando la sua avanzata, quando un messaggero inviato da un patrizio cristiano venne a sollecitare una tregua e uno scambio di prigionieri. Sawada accordò una tregua di tre mesi e riscattò trecento prigionieri musulmani, dopodiché fece ritorno a Palermo¹³.

Ibn al-Athir

 

Mesopotamia

Le cause delle invasioni turche (XI secolo)

Poiché gli arabi, vale a dire i tayyaye, si stavano indebolendo, mentre i greci [bizantini] si stavano impadronendo di numerose regioni, i tayyaye furono costretti a chiamare in loro aiuto i turchi. Essi combattevano accanto agli arabi in qualità di sudditi, e non di padroni. Ma poiché, ovunque andassero, si comportavano valorosamente e riportavano la vittoria, a poco a poco si abituarono a trionfare. Ogni volta essi si caricavano delle ricchezze della regione e le portavano in patria per mostrarle agli altri, incitandoli a partire con loro per andare a stabilirsi in un luogo magnifico come quello, colmo di simili beni¹⁴.

Michele il Siro

chiesa di ani islam

Chiesa di Ani, XI secolo, Arat, Turchia.

Saccheggio di Melitene [odierna Malatya] (1057)

In quello stesso periodo ebbe inizio l’impero dei turchi nelle regioni della Persia. Infatti, nell’anno 430 dell’impero arabo un sultano soprannominato Togrul Bey occupò il trono regale del Khorasan. Egli inviò delle truppe nel territorio armeno, che all’epoca era sotto il dominio romano [bizantino]; quando esse vi giunsero, si misero a fare prigionieri, a saccheggiare e a incendiare barbaramente ogni cosa. Più volte catturarono gli abitanti e li portarono via con sé senza che nessuno osasse affrontarli.
Durante l’inverno del 1369 [1057], circa 3000 uomini giunsero all’ex città fortificata di Melitene, e poiché essa era priva di mura in quanto Ciriaco le aveva distrutte quando l’aveva sottratta ai tayyaye, gli abitanti presero a rifugiarsi sulle montagne, dove vennero uccisi dal freddo e dalla fame. Il primo giorno, i turchi cominciarono a massacrare senza pietà, tanto che molti si nascosero sotto i cadaveri delle uccise. Gli invasori stabilirono il loro accampamento fuori dalla città, sul fianco di una collina; nessuno di loro passava la notte fuori dal campo. Per tutta la notte i ceri della chiesa restavano accesi […]¹⁵. Il secondo giorno si misero a torturare gli uomini perché mostrassero loro le cose [tesori] nascoste, e molti morirono tra i tormenti: fra essi il diacono Petrus, scrittore e maestro di scuola […].
I turchi restarono a Melitene dieci giorni, devastando e saccheggiando. Poi incendiarono la sventurata città, razziarono i territori circostanti fino a una giornata di marcia e diedero fuoco all’intera regione. Durante questo saccheggio fu preso e razziato anche il convento di Bar-Gagai [nella zona di Melitene]. Dopo aver catturato gli abitanti della regione, i turchi se ne andarono, ma si allontanarono dalla strada [principale] e si trovarono ad attraversare montagne impervie e fiumi. Mentre erano accampati in una valle situata in prossimità dei monti dei sinisaye, vi fu un’abbondante nevicata che impedì loro di avanzare. I sinisaye, che se n’erano accorti, piombarono sui turchi occupando tutte le vie e i passaggi che si aprivano dinanzi a loro, così che essi morirono di fame e di freddo in quel luogo; i sopravvissuti vennero uccisi dai sinsiaye, e non uno di essi riuscì a salvarsi. Del folto gruppo dei prigionieri di Melitene, tutti quelli che erano sfuggiti alla morte contribuirono al massacro, e vi presero parte anche coloro che erano nascosti sulle montagne […]¹⁶.

L’imperatore [Michele VI Stratiotico, 1056-1057], vedendo che i turchi avanzavano ed erano giunti fino al Ponto Eusino facendo prigionieri, saccheggiando e incendiando, mosso a pietà per i popoli cristiani della regione inviò cavalli e carri, e, dopo che essi vi ebbero caricato tutto il loro mobilio, li fece trasportare oltre il mare. razziarono le città e i villaggi di tutta l’area pontica, e il fatto che essi fossero disabitati si rivelò un vantaggio per loro, che vi trovarono altrettanti luoghi in cui insediarsi. Ora, mentre tutti biasimano l’imperatore, noi dal canto nostro diciamo che questo male non venne da Ìui ma dall’alto¹⁷.

Michele il Siro

 

Armenia

Presa di Ani da parte del sultano Alp Arsal (1064)

Nell’anno 513 dell’era armena, durante la festa della Madonna, un lunedì, la città di Ani fu conquistata dal sultano Alp Arslan, il quale ne massacrò gli abitanti, eccetto le donne e i bambini, che condusse via con sé come prigionieri¹⁸.

Samuele di Ani

 

Siria e Palestina

Poiché i turchi regnavano in Siria e in Palestina, essi infliggevano ogni sorta di tormento ai cristiani che si recavano a pregare a Gerusalemme: li percuotevano, li depredavano e riscuotevano da loro il testatico non soltanto all’ingresso della città, ma anche al Golgota e al Santo Sepolcro. Inoltre, ogni volta che vedevano una carovana di cristiani, soprattutto da Roma e dalle regioni dell’Italia, si ingegnavano a ucciderli nei modi più diversi. E quando innumerevoli pellegrini furono morti per questo motivo, i re e i conti furono finalmente presi da zelo e uscirono da Roma alla testa dei loro eserciti; si unirono a loro truppe di tutti i paesi cristiani, ed essi sconfìssero per mare i turchi fino a Costantinopoli¹⁹.

Michele il Siro

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¹ Giovanni di Nikiu, La chronique de Jean, évêque de Nikiou, trad. di Hermann Zotenberg, Imprimerie Nationale, Paris 1879,pp. 228-229.
² L’originale ha Nikius,la forma usata dall’autore della Cronaca, che nel testo etiopico si alterna a Nakius (forma araba). Per uniformità (Nikiu, forma attuale del nome, è quella già usata in precedenza nel libro), si è scelto di unificare le due grafie [N.d.T].
³ Giovanni di Nikiu, La chronique de Jean, évêque de Nikiou cit., pp. 243-244. 5
⁴ Giovanni di Nikiu, La chronique de Jean, évqêue de Nikiou cit., pp. 254-255.
Abu al-‘Abbas Ahmad ibn Jabir al-Baladhurì, The Origins of the Islamic State (Kitab futuh al-buldan. trad. di Philip Khuri Hitti, 2 voll., Murgotten, New York 1916-1924’ [Gorgias Press LLC, Piscataway (USA) 2007],p. 423.
⁶ Sebeo, Histoire d’Héraclius par l’évêque Sébéos cit., p. 228.
⁷ Michele il Siro, Chronique de Michelle Syrien, patriarche jacobite d’Antioche (1166-1199), trad. di Jean-Baptiste Chabot, 4 voll., Leroux, Paris 1899-1924′ (Culture et civilisation, Bruxelles 1963), vol. 2, p. 442.
⁸ Michele il Siro, Chronique de Michelle Syrien, patriarche jacobite d’Antioche (1166-1199), trad. di Jean-Baptiste Chabot, 4 voll., Leroux, Paris 1899-1924′ (Culture et civilisation, Bruxelles 1963), vol. 2, p. 431.
⁹ Michele il Siro, Chronique de Michelle Syrien cit., voI. 2, p. 441.
¹⁰ Élégie sur les malheurs de l’Arménie et le martyre de saint Vahan de Kogh’ten, in Édouard Dulaurier, Recherches sur la chronologie arménienne, 2 voll., Imprimerie Impériale, Paris 1859, voI. 1, pp. 238-240. Altri cronisti collocano questi eventi sotto il califfato di al-Walid (705-715)
¹¹ Abu al-Hasan ‘AlI ‘Izz al-Dìn ibn al-Athir, Annales du Magreb et de l’Espagne, trad. e note di Edmond Fagnan, Adolphe [ourdan, Algeri 1898, p. 144 (ripr. anast. GAL, Grand Alger Livres, Alger 2007).
¹² Michele il Siro, Chronique de Michelle Syrien cit., voI. 3, pp. 98-100.
¹³ Ibn al-Athìr, Annales du Magreb et de l’Espagne cit., pp. 192-193.
¹⁴ Michele il Siro, Chronique de Michelle Syrien cit., voI. 3, p. 154.
¹⁵ Michele il Siro, Chronique de Michelle Syrien cit., voI. 3, p. 158.
¹⁶ Michele il Siro, Chronique de Michelle Syrien cit, voI. 3, p. 159.
¹⁷ Michele il Siro, Chronique de Michelle Syrien cit., voI. 3, p. 160.
¹⁸ Samuele di Ani, Tables Chronologiques, in Marie-Félicité Brosset (a cura di), Colleciion d’historiens arméniens: dix ouvrages sur l’histoire de l’Arménie et des pays adiacente du Xème au XIXème siècle, 2 voll., Saint Petersbourg 1874- 1876 (ripr. anast. Apa, Amsterdam 1979), voI. 2, p. 297.
¹⁹ Michele il Siro, Chronique de Michelle Syrien cit., voI. 3, p. 182.