La scienza straniera nell’Islam

islam scienzaNel suo Fihrist, un repertorio dei libri accessibili in lingua araba nella sua epoca, il celebre biografo Ibn al-Nadīm (m. 380/990) stabilisce una netta distinzione tra “scienze islamiche e arabe” e “scienze degli Antichi” (‘ulūm al-Avā’il, ‘ulūm al-Qudamā’) o “scienze antiche” (al-‘ulūm al-quadīma). Il matematico Khwārazmī, suo contemporaneo, oppone in modo ancora più esplicito le “scienze straniere” (‘ulūm al-‘ajam), prese dai greci e dalle altre nazioni, alle “scienze della Legge” (‘ulūm al-Sharī’a) e alle scienze arabe (al-‘ulūm al-‘arabiyya) che vi si riferiscono. Questa distinzione fondamentale continuerà a dominare l’organizzazione del sapere nell’islam fino all’epoca contemporanea. Essa compare in particolare nella Muqaddima di Ibn Khaldūn (m. 808/1406), che distingue le “scienze filosofiche moderne” (muhdatha) dalle “scienze tradizionali e convenzionali” (al-‘ulūm al-naqliyya al-wad’iyya).

Queste ultime, considerate islamiche e arabe, si fondano sul Corano e comprendono l’esegesi (tafsīr) del testo rivelato nonché la grammatica e la lessicografia, ausili indispensabili all’esegesi stessa, la scienza dello Hadīth e la giurisprudenza (fiqh). Le scienze straniere, invece, non si richiamano al Corano ma ai “libri degli Antichi” (kutub al-Avā’il), sono il prodotto del movimento di traduzione promosso a Baghdad dai califfì abbasidi a partire dal regno di Mansur, iniziato nel 754 (qui un post con un piccolo approfondimento).

Pochi filosofi, come Abū al-Hasan al-‘Āmirī (m. 382/992) e i pensatori sciiti ismā’īliti (fra i quali Abū Ya’qūb al-Sijistānī, (m. verso 361/971), hanno tentato di inserire le scienze islamiche entro questo schema aristotelico, stabilendo alcune equivalenze tra i due ambiti del sapere. Ma si tratta di eccezioni, perché le scienze islamiche, almeno in quanto scienze, rimasero oltre l’orizzonte speculativo della gran parte dei filosofi (falāsifa).

In effetti, la separazione tra scienze islamiche e scienze straniere rimase molto netta lungo tutto il corso della storia del pensiero islamico. I due campi avevano ciascuno i propri rappresentanti, i propri canali di diffusione e le proprie istituzioni. Come il movimento di traduzione di cui sono il risultato, le scienze straniere dipendevano in larga parte dall’iniziativa privata, poiché erano patrocinate e fìnanziate da personaggi ricchi e influenti: califfì, vizir, principi, commercianti o semplici amatori illuminati, con una conseguente estrema precarietà. Le vite della maggior parte dei falāsifa, come Avicenna (Ibn Sīnā, m. 428/1037) e Averroè (Ibn Rushd, m. 595/1198), furono delle odissee, delle continue peregrinazioni da una corte all’altra nella continua ricerca di protettori, alla mercé di intrighi e di disgrazie sempre imminenti. Le grandi biblioteche e istituzioni votate alle scienze profane, come il Bayt al-hikma, fondato a Baghdad sotto il regno di Ma’mūn (che regnò dal 813 al 833 dell’era volgare), e la Dār al-‘ilm, fondata al Cairo dal califfo fātimida al-Hakīm nel 1005, aprivano e chiudevano le porte secondo i capricci dei vari “protettori”; e prestigiose biblioteche furono dilapidate da sovrani a corto di denaro o semplicemente privi di amore per la scienza. Considerate delle istituzioni private, tali bibliotecne non godevano di “protezione giuridica” dei vantaggi finanziari collegati ai beni della manomorta (waqf), contrariamene alle moschee e alle altre istituzioni religiose. Allo stesso modo, la gran parte delle scienze straniere era esclusa dalla cursus studiorum previsto dall’insegnamento religioso dispensato nelle moschee e nelle madāris (sing. madrasa, scuola o università teologica islamica).

Ma questa separazione, sebbene rigorosa, ovviamente non era assolutamente impermeabile e, man mano che le scienze straniere si sviluppavano, esercitavano una crescente influenza sulle scienze religiose. Soprattutto le scienze propedeutiche, come la matematica e la logica, fornivano strumenti utili o persino indispensabili all’elaborazione del diritto islamico a partire dai presupposti del Corano e della Tradizione. Allo stesso modo, la logica poteva essere impiegata a profitto dell’apologetica e per la formazione di una teologia speculativa (kalām). Alcune correnti razionaliste della teologia islamica (fra cui il mu’tazilismo) fecero propri i metodi di pensiero e di argomentazione dei filosofi, mentre l’ash’arismo, per quanto più “conservatore”, trovò nell’atomismo antico un’alternativa alla fisica aristotelica. La penetrazione delle scienze straniere entro le discipline religiose fu accolta dagli ambienti tradizionalisti come una pericolosa invasione, che metteva in pericolo l’essenza stessa dell’islam; tale sentimento provocò una reazione a volte aspra contro le nuove dottrine, tacciate di bid’a, cioè di innovazione illecita e quindi eretica, non trovando esse alcun fondamento nel Corano o addirittura essendo in aperto contrasto con i principi della Rivelazione. Innumerevoli autori musulmani, di ogni tendenza, hanno mosso guerra contro coloro che, ai loro occhi, accordavano più autorità a Empedocle, Piatene, Aristotele o Galeno che al Libro di Dio. Si fabbricarono allora varie tradizioni nelle quali il profeta Maometto pregava Dio di proteggere gli uomini da una “scienza inutile”. Se il racconto della distruzione della biblioteca di Alessandria da parte del califfo ‘Umar è quasi certamente una leggenda, esso comunque testimonia di un reale stato d’animo. Quando gli chiesero che cosa i conquistatori musulmani dell’Egitto dovessero fare della più prestigiosa biblioteca dell’antichità, ‘Umar avrebbe risposto: «Se i libri che essa contiene concordano con il Libro di Dio, sono inutili; se lo contraddicono, sono pericolosi; in entrambi i casi, bruciateli».

In particolare, si rimproverava alle scienze straniere di veicolare una visione del mondo giudicata incompatibile con l’islam. La filosofia greca pagana ignorava in effetti la creazione ex nihilo, e predicava l’eternità del mondo; si temeva che la fisica aristotelica, fondata sul principio di causalità, mettesse in pericolo l’onnipotenza e la libertà di Dio: di qui l’occasionalismo difeso dalla teologia “ortodossa”; la logica aristotelica pretendeva inoltre di stabilire dei criteri di verità insiti nella ragione umana, al di là di ogni rivelazione divina. Il fatto che le scienze religiose ricorressero spesso alla logica avviò il dibattito sulla legittimità di quest’ultima: gli autori più rigorosi, in maggioranza hanbaliti, la rifiutarono in blocco, coniando l’adagio: man tamantaqa tazandaqa («chi pratica la logica è un eretico»). Ibn Taymiyya (m. 728/1328) scriverà un’opera aspramente polemica contro la logica dei greci; più blando, I’ash’arita Ghazālī (m. 505/1111) nel suo Tahāfut al-falāsifa (L’incoerenza dei filosofì) combattè le “eresie” dei filosofi, che ritenne causate da una cieca fiducia nell’autorità degli Antichi.

Di fronte ad attacchi tanto numerosi, i filosofi e gli uomini di scienza musulmani si sforzarono andando in contro a grandi rischi di legittimare la propria pratica delle scienze straniere elaborando teorie volte a provare l’armonia tra scienza e religione, tra ragione e Rivelazione. Averroè vi dedicò il suo Discorso decisivo (Fasl al-maqāl), una fatwa a favore della legittimità delle scienze stranlere.

Dizionario del Corano, a cura di Mohammad Ali Amir-Moezzi, pag.764.

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