Il retaggio cristiano nell’islam

fonti cristiane dell'islam

Il retaggio cristiano nella tradizione islamica è cosa ormai nota. Uno dei tanti casi che stanno lì a dimostrarlo è il ruolo di figure come Zaccaria ed Elisabetta, i genitori del Battista, e dello stesso Giovanni, Yahyā, frutto di una preghiera esaudita perché nato da madre sterile, dunque anch’egli in qualche modo espressione di un particolare intervento divino.
In questo articolo vogliamo analizzare le ragioni di tali interconnessioni, e in particolare le vie attraverso le quali queste tradizioni cristiane sono giunte in ambito islamico. Poiché l’argomento è vasto e articolato, ci limitiamo solo a qualche breve tentativo di risposta.

Massimo Campanini – https://www.pars-edu.it/sites/default/files/36_Corano%2C%20di%20Massimo%20Campanini.pdf

Una prima via di influenza delle fonti cristiane dell’islam è costituita certamente dalla cultura religiosa di Maometto e, dunque, dalle fonti ispiratrici del Corano. Il libro sacro dell’islam mostra stretti legami con l’Antico e il Nuovo Testamento, e afferma apertamente l’autorevolezza delle Scritture ebraiche e cristiane, ad esempio quando Maometto viene rimandato, qualora dubiti della rivelazione a lui rivolta, al «Libro precedente», cioè la Scrittura; Dio infatti gli dice: «Se dubiti di ciò che noi abbiamo fatto scendere su di tè, interroga allora quelli che leggono il Libro precedente» (Corano 10:94 si veda anche 16:43). Tale autorità è affermata anche quando – e anzi: proprio perché – il Corano contesta l’opera di falsifìcazione (tahrīf) con cui ebrei e cristiani avrebbero manomesso le «proprie» Scritture. Agli ebrei viene rimproverato di aver «spostato le parole dai loro posti, distorcendo il linguaggio e attaccando la religione» (Corano 4:46, vedi anche 2:59, 2:75-79, 7:162). Quanto ai cristiani, invece, viene loro rimproverato di «aver dimenticato una parte di ciò che è stato tramandato loro», e questo sarebbe la causa dei ltigi e delle divisioni tra cristiani (Corano 5:14, vedi anche 2:253 e 19:37). L’accusa di falsificazione o di omissione è essa stessa ammissione di autorità del testo in questione, e dunque della consapevolezza di una certa «filiazione» dell’islam, almeno nei suoi testi fondatori, dalle religioni monoteistiche che lo avevano preceduto.
Legata all’accusa di falsificazione è la tradizione di un vangelo musulmano «corretto» dalle presunte manomissioni cristiane: si tratta del Vangelo di Barnaba, un testo apocrifo, giunto sino a noi in un manoscritto viennese del XVI secolo in antico italiano e in in altro manoscritto in lingua spagnola, che si presenta appunto come una «rilettura-correzione» islamica dei testi canonici cristiani.

Anche la biografia del Profeta suggerisce contatti con gli ambienti giudaici e cristiani a lui contemporanei. Si pensi, solo a titolo di esempio, alla ben nota storia, attestata in ambito sia cristiano sia islamico, del monaco cristiano – probabilmente siro-orientale Bahīra (o Sergio) che Maometto avrebbe incontrato in occasione del suo passaggio nella città siriana di Bostra; o anche alla famosa concubina cristiana del Profeta, Maria la Copta, dalla quale egli ebbe il suo unico figlio maschio, anch’essa sua possibile fonte di tradizioni cristiane.

Una seconda via è costituita dai rapporti tra cristiani e musulmani, che si sono trovati a condividere una medesima regione geografica e hanno avuto varie occasioni di contatto. Si pensi in particolare all’antichissima migrazione islamica in Etiopia, regno all’epoca già cristiano, e ai contatti con comunità, soprattutto di tradizione siriaca e di lingua araba della penisola arabica e dell’intera mezzaluna fertile (a questo proposito ricordiamo solo che, tra le varie spiegazioni fornite per l’origine del nome islamico ‘Isā per Gesù, una delle più convincenti pare essere il passaggio per il siriaco Yešū, oppure tramite il mandaico); in un primo tempo, soprattutto con le comunità di Najran, e le tribù dei Taghlib, dei Ghassanidi e dei Lakhmidi, ma successivamente anche con altre comunità della chiesa siro-orientale di Mesopotamia, con le quali il mondo islamico intrattenne per vari secoli rapporti privilegiati soprattutto di collaborazione culturale e anche di confronto teologico, come testimoniano i vari dialoghi tra teologi cristiani e musulmani dei primi secoli dell’egira.

Una terza via di comunicazione è certamente stata quella di Waraqa ibn Nawfal, cugino di Kadija, la prima moglie di Maometto, che le fonti islamiche indicano come cristiano.

Infine, una quarta via è costituita dai contatti tra monaci cristiani e musulmani appartenenti ai circoli sufi. Anche in questo caso, è la prossimità geografica a favorire dapprima i contatti, e poi anche una certa identità di orientamento nella vita ascetica e mistica. Gli studi comparati sul lessico e sui concetti della mistica islamica e di quella cristiana, soprattutto di ambito siriaco, che devono a Massignon un contributo fondamentale, hanno mostrato la grande facoltà di questo campo di ricerca.
Tutto questo fa sì che, almeno per i primi secoli, vi sia, soprattutto da parte islamica, una certa consapevolezza di prossimità o addirittura di parentela con ccon ebraismo e cristianesimo. Emerge in qualche modo la coscienza di appartenere a un medesimo progetto, – certo, variamente interpretato dalle tre religioni monoteistiche – messo in opera da Dio. Un hadīth di chiara ispirazione evangelica, che riprende la parabola di contenuta in Matteo 20:1-16 adattandola alle tre religioni monoteistiche, lascia trasparire in maniera molto chiara questa consapevolezza di una comune appartenenza. Vi si legge:

«La vostra epoca, paragonata a quella delle altre comunità, è [come] quello che separa la preghiera del pomeriggio dal tramonto del sole. Accade a voi [musulnani], giudei e cristiani come nella parabola di un uomo che prese a giornata degli operai per un lavoro e disse loro: “Chi lavora per me fino alla metà del giorno per un qirāt [denaro]?”. I giudei lavorarono fino alla metà del giorno per ricevere ognuno un qirāt. Poi disse: “Chi lavora per me dopo la metà del giorno fino alla preghiera del pomeriggio per un qirāt. I cristiani lavorarono dopo la metà del giorno fino alla preghiera del pomeriggio per un qirāt. Infine, egli disse: “Chi lavora per me dopo la preghiera del pomeriggio fino al tramonto del sole per due qirāt? Non è dovuto a voi musulmani il doppio del salario?”. I giudei e i cristiani furono presi da collera e dissero: Abbiamo lavorato di più e abbiamo ricevuto di meno!”. Allora Dio disse loro: “Sono stato ingiusto per quanto concerne il vostro diritto? Essi risposero: “No”. Dio disse: “È un dono che concedo a chi voglio”» (testo citato in Arnaldez, Gesù, p. 18).

Al di là della questione del doppio salario accordato all’islam, ciò che qui è interessante rivelare è innanzitutto il fatto che questo hadīth riprenda chiaramente un passo evangelico (testo dunque cui l’autore ha accesso); e in secondo luogo è interessantela sua rilettura della parabola: l’islam «lavora alla medesima opera» cui hanno lavorato in precedenza ebrei e cristiani.
Anche se a diverso titolo, i nostri detti sono dunque e in qualche modo frutto di espressione di quei contatti. Ve ne sono, infatti, alcuni che dipendono dalla tradizione neotestamentaria e apocrifa cristiana, ma ve ne sono anche non pochi per i quali è difficile rintracciare una fonte ispiratrice cristiana immediata. Per il primo gruoppo, cui appartengono in particolare i detti coranici, le fonti principali sono i Vangeli, in particolare Matteo e Luca, alcuni scritti apocrifi, e qualche altro documento neotestamentario, ad esempio la Lettera di Giacomo che, come vedremo, pur nella sua brevità, mostra varie assonanze con i detti. La dipendenza, tuttavia, può non essere diretta, ma dovuta a reminiscenze e tradizioni orali. Al secondo gruppo appartengono invece quei detti in cui Gesù è semplicemente un personaggio al quale viene attribuito un insegnamento, e che non dipende dal Gesù storico se non in modo indiretto. In questo caso, egli appare come una personalità autorevole cui sono attribuiti detti di sapienza, di varia origine (a volte anche veterotestamentaria o patristica), che sembrano accordarsi con l’immagine che di lui è trasmessa all’interno dell’islam. Non sono infatti rari i casi in cui una medesima sentenza è riferita da alcuni autori a Gesù e da altri a Maometto o ad altre personalità islamiche. La distribuzione cronologica di queste due tipologie di detti mostra una concentrazione più alta di quelli di ispirazione evangelica durante i primi secoli dell’egira; man mano che ci si allontana dalle origini, i detti «nuovi» che appaiono negli autori islamici sono sempre meno dipendenti da tradizioni evangeliche.

Che il Corano sia radicato nel Vangelo è, come abbiamo detto all’inizio, un dato di fatto. Ciò nonostante la visione coranica sia diversa da quella cristiana. Anche quando una tradizione è radicalmente reinterpretata, non per questo l’esito arriva a distruggere completamente il punto di partenza. Qui di seguito elenchiamo una piccolissima raccolta di esempi riferiti a Gesù:

  • Il Corano mostra particolare interesse per la nascita di Maria da Anna, una donna sterile cui Dio concede una discendenza che sarà consacrata al servizio di Dio, all’ingresso di Maria nel tempio dove, secondo la promessa fatta a Dio dalla madre, ella viene affidata a Zaccaria, il padre di Giovanni Battista. Tutti questi episodi trovano corrispondenza in vari apocrifi cristiani, in particolare nel Protovangelo di Giacomo e nel Vangelo dello Pseudo-Matteo. Il Corano non dice invece nulla di Giuseppe, la figura sarà tuttavia integrata nella tradizione successiva dei commentatori.
  • Il Corano rifiuta la narrazione evangelica secondo cui Gesù sarebbe morto sulla croce, poiché ciò non si addice ad un personaggio di tale rilievo, cioè un profeta protetto da Dio, e afferma che «Dio lo ha elevato a se» (Corano 4:158); espressione dal significato discusso ma che sembra escludere la morte in croce. La crocifissione, dunque, sarebbe avvenuta solo in «apparenza»; il Corano dice, con un’espressione celebre e dibattuta «ciò era sembrato loro» (Corano 4:157). Avremmo dunque qui tracce di una tendenza presente già già in testi cristiani di origine gnostica, qualificata come «docetistica», che ritiene la morte di Gesù in croce una morte non reale ma apparente; si veda in particolare lo gnostico Basilide, riportato da Ireneo di Lione, gli Atti di Giovanni e il Vangelo di Pietro. Qualcuno colloca questa lettura non tanto nella scia di un semplice influsso docetistico, bensì nell’ambito  delia polemica islamica anti-giudaica, per cui l’affermazione «ciò era sembrato loro» rappresenterebbe la contestazione di quanto il Corano nel medesimo versetto attribuisce agli ebrei: «Certo, noi abbiamo ucciso Gesù, figlio di Maria, messaggero di Dio» (Corano 4:157). Secondo questa interpretazione, il testo sacro dell’islam contesterebbe tale crimine di cui gli ebrei si vanterebbero, in quanto essi non avrebbero potuto uccidere l’inviato di Dio. Quali che siano le origini e il senso dell’affermazione, per il Corano la morte di Gesù sarebbe da ritenere un fatto «apparente». Solo una tradizione minoritaria ammetterà nell’islam la possibilità che Gesù sia realmente morto, benché limitatamente a una sua parte. Le Rasā il Ikhwān al-safā sono una di queste eccezioni. Tuttavia, avvalendosi di uno schema filosofico di tipo neoplatonico, questo testo afferma che ciò che fu crocifisso è solo «la sua anima». Resta dunque una parte di Gesù che non fu toccata dalla morte di croce, perché al di là della sua umanità. Infine, segno del particolare di Gesù, è la credenza in un suo ritorno prima della fine del mondo (Corano 3:55, 4:159, 43,61).

La tradizione islamica successiva al Corano svilupperà considerevolmente le fasi relative a tale ritorno, individuando una serie di veri e propri segni della fine dei tempi. Il giudizio vero e proprio, prerogativa di Dio ma preceduto dal ritorno di Gesù, avverrà solo al compimento della storia, mentre al momento della morte ciascuno è sottoposto a un giudizio personale dopo il quale attende nella tomba dove pure fa esperienza, come in un’anticipazione, di una qualche forma di consolazione o di tormento, a seconda della sua precedente condotta. In questo caso la fonte cristiana è stata Inni sul paradiso di Efrem il Siro.
Dunque Il Gesù del Corano, benché si discosti da quello cristiano per diversi tratti di non secondaria importanza, affonda tuttavia le proprie radici nel Nuovo Testamento e in alcuni altri scritti di origine cristiana, ritenuti apocrifi dalla «grande chiesa», o comunque nelle tradizioni da essi attestate: il Protovangelo di Giacomo, il Vangelo dello Pseudo-Matteo, il Vangelo arabo dell’infanzia, Il Vangelo armeno dell’infanzia, il Vangelo di Tommaso e gli Atti apocrifi di Giovanni. Di queste narrazioni si servirono poi in particolare i commentatori del Corano, che attinsero anche a quel vasto alveo di tradizioni riferite da ebrei o cristiani convertiti, note con il nome di isra’īliyyāt.

  • Tornò dai suoi portando [il bambino]. Dissero: “O Maria, hai commesso un abominio! O sorella di Aronne, tuo padre non era un empio, né tua madre una libertina”. Maria indicò loro [il bambino]. Dissero: “Come potremmo parlare con un infante nella culla?”, [Ma Gesù] disse: “In verità, sono un servo di Allah. Mi ha dato la Scrittura e ha fatto di me un profeta. Mi ha benedetto ovunque sia e mi ha imposto l’orazione e la decima finché avrò vita, e la bontà verso colei che mi ha generato. Non mi ha fatto né violento, né miserabile. Pace su di me, il giorno in cui sono nato, il giorno in cui morrò e il Giorno in cui sarò resuscitato a nuova vita”. (Corano 19:27-33).
    ln questo brano, tratto dalla sura «Maria» viene narrato il primo prodigio di Gasù: per discolpare Maria (qui detta «sorella di Aronne» a causa della sua assimilazione alla sorella di Mosè e di Aronne) dall’accusa di adulterio, egli parla dalla culla (vedi anche Corano 3:46 e 5:110). Lo stesso episodio viene trattato anche da alcuni detti (es. Ibn Al-Athīr – Kāmil 1,220-1). La tradizione di Gesù che parla dalla culla è attestata in alcuni apocrifi cristiani, come il Vangelo arabo dell’infanzia. Quanto agli scritti canonici, potrebbe potrebbe esservi in tutto questo un’eco, ma alquanto generica, di Matteo 21:16 («Dalla bocca di bambini e lattanti sei procurato una lode») o dal testo citato da Matteo, vale a dire il salmo 8:3 («Con la bocca di bambini e lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari»),  che si adatterebbe ancora megito al contesto di accusa rivolta a Maria. Nel Vangelo arabo dell’infanzia 1,2, Gesù dice a Maria: «Io sono Gesù, figlio di Dio, il Verbo che tu hai dato alla luce, conforme al messaggio dell’angelo Gabriele. Mio padre mi ha inviato per la salvezza del mondo» (Gli apocrifi del Nuovo Testamento 1/2, p. 104). Il contenuto di questo passo è tipicamentè cristiano, in quanto ricorda sia la figliolanza divina di Gesù sia la sua missione redentrice. Il testo coranico, invece, pur riproponendo espressioni analoghe, le orienta in un altro senso, facendone una rilettura-correzione della tradizione cristiana, come sembra suggerire soprattutto l’inizio, quando Gesù dice: «In verità io sono servo di Dio». Questa è infatti una tipica espressione di tradizione islamica, con cui Gesù contesterebbe la propria «divinizzazione» operata dai cristiani.
  • «In verità Allah è il mio e vostro Signore. AdorateLo allora. Ecco la retta via» (Corano 43:64).
    In questo versetto non è difficile scorgere un’eco delle parole di Gesù a Maria Maddalena, dopo la resurrezione: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (giovanni 20:17).
  • Ella disse: “Come potrei avere un bambino se mai un uomo mi ha toccata?”. Disse: “È così che Allah crea ciò che vuole: “quando decide una cosa dice solo Sii”, ed essa è. E Allah gli insegnerà il Libro e la saggezza, la Torâh e il Vangelo. E [ne farà un] messaggero per i figli di Israele [che dirà loro]: In verità, vi reco un segno da parte del vostro Signore. Plasmo per voi un simulacro di uccello nella creta e poi vi soffio sopra e, con il permesso di Allah, diventa un uccello. E per volontà di Allah, guarisco il cieco nato e il lebbroso, e resuscito il morto. E vi informo di quel che mangiate e di quel che accumulate nelle vostre case. Certamente in ciò vi è un segno se siete credenti! [Sono stato mandato] a confermarvi la Torâh che mi ha preceduto e a rendervi lecito qualcosa che vi era stata vietata. Sono venuto a voi con un segno da parte del vostro Signore. Temete dunque Allah e obbeditemi. In verità, Allah è il mio e vostro Signore. AdorateLo dunque: “ecco la retta via””. Quando poi Gesù avvertì la miscredenza in loro, disse: “Chi sono i miei ausiliari sulla via di Allah?”. “Noi, dissero gli apostoli, siamo gli ausiliari di Allah. Noi crediamo in Allah, sii testimone della nostra sottomissione. Signore! Abbiamo creduto in quello che hai fatto scendere e abbiamo seguito il messaggero, annoveraci tra coloro che testimoniano.” (Corano 3:47-53).
    Nella prima parte di questo brano tratto dalla sura «La famiglia di ‘Imrān», ottantanovesima secondo l’ordine cronologico, rivelata a Medina, Maria chiede come sia possobile che si compia il progetto di Dio su di lei, che non ha conosciuto uomo; tema, questo, che ritroviamo già nel Vangelo di Luca (1,34-5), e anche altrove nel Corano (Corano 19:20-1). Quindi si parla della missione che Dio affida a Gesù: Dio stesso gli insegnerà «la scrittura» e «la sapienza» come anche «la Torah e il Vangelo». Della prima espressione i commentatori islamici danno diverse interpretazioni: per alcuni si tratterebbe della scrittura intesa come capacità di scrivere; per altri si tratterebbe invece di un libro rivelato da Dio a Gesù e rimasto segreto, oppure della Torah, che sta a indicare l’Antico Testamento, e del  Vangelo. In ogni caso Gesù è presentato come un inviato con una destinazione precisa: i figli di Israele. La sua missione non è dunque concepita come «universale», almeno secondo questo testo, ma sarebbe circoscritta al suo popolo. Potremmo accostare questa precisazione a quanto i Vangeli sottolineano in più punti circa la priorità, se non addirittura l’esclusività, di tale missione nell’azione di Gesù. Si pensi ad esempio all’episodio della donna cananea, dunque non ebrea, che chiede a Gesù la guarigione della propria figlia; Gesù le obietta: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele» (Matteo 15,24). La missione di Gesù sarà accompagnata da alcuni segni, compiuti «con il permesso di Dio», come ripete spesso il Corano, per sottolineare la subordinazione di Gesù a Dio. Il primo è un segno ignoto al Nuovo Testamento ma che ha conosciuto una grande fortuna negli apocrifì cristiani; si tratta dell’animazione di un uccello di argilla plasmato da Gesù stesso. Se ne trova menzione, oltre che altrove nel Corano (5:110), nel Vangelo arabo dell’infanzia (36:1, in Gli apocrifi del Nuovo Testamento I/2, p. 112), nel Vangelo dello Pseudo-Matteo (27:1, in Gli apocrifi del Nuovo Testamento I/2, p. 58), nel Vangelo armeno dell’infanzia (18:2, in Gli apocrifi del Nuovo Testamento I/2, p. 159), nelle varie redazioni dei Paidika tou Kyriou dello Pseudo-Tommaso (A, 2,1-2; gr. B, 3,1; lat. 4,2, in Gli apocrifi del Nuovo Testamento I/2, pp. 83, 89 e 91), come anche nei documenti della polemica ebraica anti-cristiana noti con il nome di Toledoth Yeshu (Di Segni, p. 56). Seguono tre segni tratti dal Nuovo Testamento, oltre che presenti ancora in Corano 5:110: la guarigione del cieco nato (Giovanni 9:1-41); la guarigione del lebbroso (Matteo 8:1-4); la resurrezione dei morti (vedi la resurrezione della figlia di uno dei capi, in Matteo 9:18-26, quella del figlio della vedova di Nain, in Luca 7:11-7, e infine quella di Lazzaro, in Giovanni 11:1-45). Tutti questi prodigi sono presentati come un «segno» che Gesù offre al fine di essere creduto dal suo popolo come colui che è venuto «a confermare la Torah» – tema che ritorna anche nel detto qui di sotto – e a «rendere lecito» qualcosa che era proibito. L’associazione di questi due temi fa pensare soprattutto al Vangelo di Matteo dove troviamo, accanto all’affermazione chiara che Gesù non è venuto ad abolire la Legge e i Profeti bensì a compierli (Matteo 5:17), anche il discorso sul puro e l’impuro che può essere inteso come «rendere lecito ciò che era proibito» (Matteo 15:1-20). La reazione di incredulità da parte del popolo spinge Gesù a cercarsi alcuni collaboratori; nasce così la vocazione degli apostoli, detti «ausiliari» di Dio. Per questa loro fede in Dio, nel suo inviato (in questo caso Gesù stesso) e nella sua rivelazione («ciò che hai fatto scendere»), essi chiedono a Gesù di essere riconosciuti come «sottemessi» e «testimoni». Soprattutto il primo termine è importante perché presenta gli apostoli come autentici musulmani. Dopo che il primo detto ha presentato Gesù come modello del credente musulmano, ora è la volta degli apostoli. Nel secondo termine, invece, è possibile scorgere un’eco della tradizione evangelica che presenta gli apostoli come «testimoni» (Luca 24:48; Giovanni 15,27; Att. Ap. 1:8; 10:59).
  • Quando gli apostoli dissero: “O Gesù, figlio di Maria, è possibile che il tuo Signore faccia scendere su di noi dal cielo una tavola imbandita?”, gli rispose: “Temete Allah se siete credenti. Dissero: “Vogliamo mangiare da essa. Così i nostri cuori saranno rassicurati, sapremo che tu hai detto la verità e ne saremo testimoni”. Gesù figlio di Maria disse: “O Allah nostro Signore, fa’ scendere su di noi, dal cielo, una tavola imbandita che sia una festa per noi – per il primo di noi come per l’ultimo – e un segno da parte Tua. Provvedi a noi, Tu che sei il migliore dei sostentatori”. Allah disse: “La farò scendere su di voi, e chiunque di voi, dopo di ciò, sarà miscredente, lo castigherò con un tormento, che non infliggerò a nessun’altra creatura!”. E quando Allah dirà: “O Gesù figlio di Maria, hai forse detto alla gente: “Prendete me e mia madre come due divinità, all’infuori di Allah?””, risponderà: “Gloria a Te! Come potrei dire ciò di cui non ho il diritto? Se lo avessi detto, Tu certamente lo sapresti, ché Tu conosci quello che c’è in me e io non conosco quello che c’è in Te. In verità sei il Supremo conoscitore dell’inconoscibile. Ho detto loro solo quello che Tu mi avevi ordinato di dire: Adorate Allah, mio Signore e vostro Signore”. Fui testimone di loro finché rimasi presso di loro; da quando mi hai elevato [a Te], Tu sei rimasto a sorvegliarli. Tu sei testimone di tutte le cose. Se li punisci, in verità sono servi Tuoi; se li perdoni, in verità Tu sei l’Eccelso, il Saggio” (Corano 5:112-118).
    Dalle battute iniziali di questo brano tra gli apostoli e Gesù sembra che quest’ultimo. non conceda volentieri il segno che gli viene chiesto e li esorta a credere. Nel Corano si può osservare un procedimento analogo in un passo in cui Abramo dice a Dio: «Mostrami come resusciti i morti». Dio ribatte: «Non credi ancora?». Abramo risponde che è solo «per rassicurare il suo cuore»; e Dio cede alla sua richiesta (Corano 2:260). Il procedimento è analogo e, in particolare, la ragione avanzata dai discepoli per giustificare la loro richiesta è la stessa: «Rassicurare il proprio cuore». Nei Vangeli canonici, in vari passi emerge questa «fede debole» dei discepoli, che Gesù puntualmente qualifica come «piccoli di fede» (Matteo 6:30; 8:26; 14:31; 16:8).
    Quanto al segno della tavola imbandita che scende dal cielo, i commentatori esitano nell’individuare i possibili riferimenti a testi cristiani. Si potrebbe pensare a un’eco della moltiplicazione dei pani e dei pesci, associata nei testi canonici a una certa incredulità dei discepoli, i quali suggeriscono a Gesù di licenziare le folle perché vadano a comprarsi da mangiare (Matteo 14:13-21 e i 15:32-9); oppure all’episodio delle nozze di Cana (Giovanni 2:1-11); o ancora al banchetto per eccellenza della tradizione cristiana, l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli (Matteo 26:26-35), che qui sarebbe in qualche modo vista nel suo aspetto «mistico», di una tavola apparecchiata con un cibo che viene dal cielo. Infine, vi potrebbe essere qui un richiamo al banchetto messianico, di cui Gesù offre nei Vangeli una parabola (Matteo 22:1-14), come sembra suggerire il fatto che Gesu chiede a Dio la mensa perché sia «una festa» dei primi come degli ultimi. Di una tovaglia che scende dal cielo colma di animali destinati a essere mangiati parlano anche gli Atti degli apostoli, riferendola però non a Gesù ma a Pietro (Att. Ap. 10). Si potrebbe pensare anche a un’eco del salmo 78:17-20.
    La seconda parte del detto cambia completamente argomento e ritorna sul tema dell’associazionismo. La presunta divinizzazione di Maria può essere dovuta a una cattiva comprensione – da parte dei musulmani – della venerazione cristiana rivolta alla Vergine, e reali esagerazioni in tal senso che il culto cristiano ha conosciuto, o infine dell’identificazione di Maria con una divinitò femminile, generalmente associata allo Spirito Santo, cui si riferiscono speculazioni gnostiche stigmatizzate da eminenti erisiologi cristiani come Ireneo di Lione (Contro le eresie 1:30). Gesù ribadisce la sua soggezione a Dio, con la formula già vista «mio Signore e vostro Signore», assicurando di aver trasmesso ai suoi discepoli solo quanto aveva ricevuto. Quest’ultima attermazione e la successiva, dove Gesù chiede a Dio di vigilare sui discepoli dopo la sua morte, sembrano riecheggiare la parte finale di addio di Gesù narrati dal quarto Vangelo (Giovanni 17:6-26). In questa stessa atmosfera sembrano essere avvolte anche le ultime parole del detto, con cui Gesù, pur riconoscendo a Dio piena autorità sulla sorte dei discepoli, in qualche modo intercede per loro, perché siano perdonati per il loro errore: «Se li punisci, ebbene sono tuoi servi», vale a dire, ne hai tutta l’autorità; ma «se li perdoni, ebbene tu sei il Possente, il Sapiente». La magnificenza e la sapienza di Dio sono pienamente rivelate dalla sua misericordia. Abbiamo qui un tratto che potremmo definire squisitamente «evangelico» della figura di Gesù e di Dio misericordioso.

Per numerosi altri esempi riguardo il tema del sincretismo islamico vi rimandiamo alla lettura di I detti islamici di Gesù, a cura di Sabino Chialà.

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